Le incompatibilità nel movimento

di Aligi Taschera

Il “Convegno alla rovescia” si è concluso con un documento unitario, proposto da una commissione formata da esponenti di tutti i movimenti che hanno partecipato al convegno, che ha corretto e integrato una bozza da me proposta. E tuttavia la mia partecipazione a quel convegno in veste di presidente non ha sostanzialmente modificato l’impressione che avevo già prima:

l’impressione, cioè, che il cosiddetto movimento del dissenso non solo non abbia una direzione comune, ma che in esso convivano posizioni diverse che non è affatto detto che siano compatibili e che siano riconducibili ad una direzione unitaria. Infatti esso risulta dalla confluenza di persone che hanno saputo resistere alle costrizioni e ai ricatti delle politiche pandemiche attuate dai governi Conte e Draghi, accomunate dalla volontà di difendere la propria libertà personale, dichiarata inviolabile dalla Costituzione della Repubblica Italiana.

Tuttavia, finita l’emergenza e cessate (almeno apparentemente) le costrizioni vessatorie dei governi, il movimento ha esibito una notevole tendenza alla frammentazione. Il che è naturale. Terminata ufficialmente l’emergenza pandemica, infatti, restare attivi significa restare attivi non più solo nei confronti delle costrizioni e le restrizioni in cui è costituita l’emergenza pandemica, ma opporsi fattivamente alle condizioni che hanno generato quell’emergenza, e contro il tentativo di ristrutturazione dell’assetto economico capitalistico globale di cui quell’emergenza faceva parte. Ma è inevitabile che le interpretazioni di quelle condizioni e di quella ristrutturazione divergano, come è naturale che divergano le idee sulle alternative da proporre.

Il tentativo di Resistenza Radicale di creare occasioni di consultazione e scambio che contrastino questa tendenza, opponendole la costruzione di una possibile direzione unitaria, è lodevole, oltre che necessario. Ma siamo sicuri che possa essere coronato da successo? Già abbiamo dovuto constatare l’indisponibilità di movimenti importanti, come Democrazia Sovrana e Popolare e Italexit; poi non si può non vedere che, anche tra coloro che hanno aderito al convegno, sembrano convivere posizioni diverse, che tendono a direzioni diverse.

Destra/sinistra: un’opposizione superata?

La maggiore questione irrisolta, che trascende il cosiddetto movimento antisistema, ma che è un problema irrisolto dell’attuale momento storico, è l’antica questione della distinzione tra destra e sinistra. Essa è da tempo effettivamente superata nei fatti. Il periodo pandemico, poi, sembra averla resa definitivamente obsoleta. Abbiamo visto una sedicente sinistra diventare il braccio armato degli interessi delle multinazionali del farmaco; esaltare l’obbedienza come la suprema virtù; azzerare completamente il pensiero critico trasformando la scienza (che storicamente ne fu il nerbo) in fede religiosa; proporre e sostenere forme inedite di censura; esaltare le discriminazioni tra cittadini e istigare alla persecuzione dei dissidenti e quant’altro. La destra è stata in realtà più propensa alla critica, più cauta, più attenta al rispetto dei principi costituzionali. I fatti sono questi, e indicano che l’opposizione destra-sinistra è ormai uno strumento inadeguato e fuorviante per interpretare in qualche modo gli eventi storico-sociali contemporanei.

Il collasso dell’opposizione destra/sinistra, se si è rivelato in modo clamoroso durante l’attuazione delle politiche pandemiche, non è affatto una novità, e discende dal declino del potere degli stati, e dunque della politica e cioè della democrazia, che, negli ultimi trent’anni (o forse più) è andato via via spostandosi verso élites informali non elette. Scrive Marcello Foa: “Il nuovo establishment…. è composto da gruppi di potere informali in grado di assumere simultaneamente più identità, di ricoprire più ruoli… La nuova élite è efficiente, pragmatica e cinica, infatti si appropria disinvoltamente sia dell’etichetta di destra sia di quella di sinistra per promuovere la stessa agenda, che è basata non sulla separazione tra pubblico e privato, bensì sulla sua commistione.” Le etichette di destra e sinistra, tuttavia, continuano ad avere una diversità, per lo meno apparente, se le stesse élites le possono usare per i loro scopi. Ma questa diversità, che è divenuta apparente, è erede di una diversità storica sostanziale. Siamo sicuri che i motivi sostanziali che determinarono le differenze tra destra e sinistra siano oggi venuti meno? Io non ne sarei tanto sicuro. Ma se essi non sono venuti meno, un movimento che si prefigga di opporsi a questo “nuovo establishment” ne deve tener conto; diversamente dal nuovo establishment, che ha un enorme potere e degli obiettivi a lui chiari e ben articolati, e che può usare destra e sinistra come etichette vuote, strumentali ai suoi fini, un movimento di opposizione, che non ha potere, e nemmeno un progetto definito, può continuare a frammentarsi indefinitamente, se non si confronta con i motivi storici che fecero nascere i concetti di destra e sinistra, che per più di centocinquant’anni non furono etichette vuote.

Per affrontare questa questione partirò da Giuseppe Mazzini, che a buon diritto può essere ritenuto il capostipite della sinistra in Italia. Nei “Pensieri sulla democrazia in Europa”, scritti in inglese tra il 1846 e il 1847, e pubblicati in italiano solo nel 1852, egli scrive: “La dottrina che prende come punto di partenza i diritti individuali, ha svolto…un alto ruolo, altamente benefico per l’umanità. … Ha conquistato…libertà di coscienza, garanzie politiche, libertà di stampa; e ora ha conquistato la libertà dei commerci. La questione importante per la democrazia non è qui, ma tutto ciò basta? Sono tutte queste conquiste il fine, o non sono piuttosto i mezzi, capaci di raggiungere il fine? E se è così, può il principio dell’Io, del diritto individuale…guidare l’uomo, può associare gli uomini a questo fine, per le conquiste ulteriori? Questo è il problema…la dottrina dei diritti individuali è…solo una grande e santa protesta in favore della libertà umana contro l’oppressione di qualunque tipo. Il suo valore, quindi, è puramente negativo. Capace di distruggere, è impotente a fondare. Può rompere le catene, ma non ha il potere di creare vincoli di cooperazione e di concordia…La dottrina dei diritti ha dato agli uomini la capacità di agire. Ma quale sarà adesso, la loro azione? … Ecco nazioni forti e grandi, liberate da tutti i vincoli che pregiudizi, interessi di classe, o le ostili ambizioni di poche famiglie regnanti avevano posto su di loro. Che uso faranno della loro libertà di azione? … Assumeranno…come loro motto, l’indebolimento di tutti fuorché di noi stessi; oppure il miglioramento di tutti per opera di tutti, il progresso di ciascuno per il vantaggio di tutti? Questo è ancora una volta il problema che la Democrazia desidera risolvere.” E ancora: “… non era per raggiungere l’ignobile e immorale ognuno per sé stesso, che tanti grandi uomini…hanno versato…le lacrime dei loro animi, il sudore e il sangue dei loro corpi…Lavorarono per qualcosa di più alto dell’individuale, per quell’Umanità che dovrebbe essere l’oggetto di tutti i nostri sforzi, e verso la quale siamo tutti responsabili. … Siamo tutti vincolati l’un l’altro. Tutti viviamo per gli altri.”

Questa lunga citazione in realtà ci basterebbe per analizzare quel che sta accadendo nel movimento del dissenso, come vedremo più avanti. Per ora ci serve per individuare i tratti fondamentali che separano la destra liberale storica (che gli storici fanno risalire a Cavour) e sinistra democratica, dal cui ambito nacquero anche l’idea e l’organizzazione socialista (e Mazzini può a buon diritto essere considerato il trait d’union tra democrazia e socialismo, visto che dopo l’unificazione italiana si dedicò all’organizzazione delle prime associazioni operaie). La destra (quella storica, ottocentesca, non quella fascista, evidentemente) è caratterizzata dalla dottrina dei diritti individuali, che, secondo Mazzini, ha un valore puramente negativo, e può finire poi per ridursi all’ognuno per sé stesso; la democrazia, radice di tutte le sinistre, lavora per qualcosa di più alto dell’individuale. Per Mazzini (come per Comte) quel qualcosa di più alto è l’Umanità stessa.

Se vogliamo tornare ancora più indietro, e andare all’origine stessa del pensiero democratico, potremmo tornare a J.J. Rousseau, per il quale a fondamento del potere dello stato sta la volontà generale. Ma essa, per il ginevrino, non è semplicemente la somma della volontà dei singoli. Egli, ne “Il contratto sociale”, scrive infatti: “Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale: questa non riguarda che l’interesse comune; l’altra ha riguardo all’interesse privato, e non è che una somma di volontà particolari. Ma togliete da queste volontà il più e il meno che si annullano fra di loro, resta come somma delle differenze la volontà generale.”. Potremmo dunque dire che, mentre la destra storica liberale si limita all’affermazione dei diritti individuali, la sinistra ha sempre considerato fondamentale il bene collettivo, o bene comune.

Questo spiegherebbe anche perché la sedicente sinistra, ma soprattutto quello che potremmo chiamare “popolo della sinistra”, ha prevalentemente abbracciato, spesso con fanatismo, le politiche pandemiche, e abbia sostenuto tutte le più assurde restrizioni dei diritti individuali e abbia approvato con entusiasmo la politica ricattatoria volta a costringere tutti ad inocularsi una terapia genica soprannominata vaccino. Il popolo della sinistra è in modo irriflesso ed automatico pronto a recepire appelli al bene comune, che gli permettono, tra l’altro, di sentirsi moralmente superiore, come ben mostrano anche le parole di Mazzini. Alle élites al potere è semplicemente bastato far credere che i loro interessi (quelli dell’industria legata all’informatica e dell’industria farmaceutica e biotecnologica) coincidessero con il bene comune. Tale identificazione è stata facilitata dalla diffusione ad arte di un terrore della morte non fondato sulla reale mortalità della malattia causata dal virus, ma su una sapiente campagna di (dis)informazione di massa. L’impresa è risultata particolarmente facile, in una cultura di sinistra prevalentemente contrassegnata, per lo meno in Italia, da due caratteristiche: un ateismo materialistico rozzo ed ingenuo, incapace di fornire strumenti razionali per affrontare la paura della morte, e la storica prevalenza della cultura comunista, abituata a lasciare che il bene comune venga stabilito dal partito o dallo stato.

In una fase storica in cui una élite transnazionale del potere neoaristocratica cerca di far regredire i cittadini al ruolo di sudditi, è naturale che la resistenza abbia prevalso in un popolo orientato prevalentemente a destra, più attaccato ai diritti individuali, che, come notava Mazzini, sono “una grande e santa protesta in favore della libertà umana contro l’oppressione di qualunque tipo.”. Tuttavia, come nota Mazzini, “…la teoria dei diritti individuali…può rompere le catene, ma non ha il potere di creare vincoli di cooperazione e di concordia”. Il che spiegherebbe la tendenza alla frammentazione una volta che “le catene” si sono un po’ allentate. È dunque più che mai giunto il momento di individuare le incompatibilità, le tendenze che, presenti in uno stesso corpo, si annullano vicendevolmente finendo per immobilizzarlo, rendendo vana anche la difesa dei diritti individuali, impossibile senza un forte movimento che sia capace di opporsi alle tendenze oligarchiche del sistema di potere transnazionale.

Privato/pubblico, o anche libertà formale/libertà sostanziale.

La difesa dei diritti individuali è sacrosanta, ma non può limitarsi ad una libertà formale, senza prendere in considerazione la libertà sostanziale, vale a dire la libertà dal bisogno e la libertà di partecipare alla gestione della cosa pubblica, come hanno sempre sostenuto le sinistre, che hanno sempre combattuto per la partecipazione paritaria di tutti alla formazione del potere (sinistre democratiche) e per la libertà dal bisogno (sinistre socialiste). Di modo che non è accettabile che in nome della libertà ci si spinga a un’ostilità verso lo stato che si allarghi ai servizi pubblici da esso erogati, favorendo il privato e le privatizzazioni.

Tale concezione contrasta apertamente con l’art. 3 della Costituzione della Repubblica, che ben riassume gli apporti di quelle che furono storicamente le sinistre, e, al secondo comma, recita: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Solo i servizi pubblici, che solo lo stato ha il potere sufficiente per erogarli gratuitamente, possono contribuire ad un’eguaglianza sostanziale, ad es. in materia di sanità e di istruzione. Di modo che l’esaltazione della libera iniziativa trova un limite nella difesa di servizi pubblici capaci, se non di rimuovere, almeno di intaccare gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza e la libertà dei cittadini. Trova un limite nel rispetto e nella difesa delle condizioni materiali di vita delle fasce povere della popolazione.

Tradizione/progresso.

In parte sovrapponibile all’opposizione destra/sinistra, diritto individuale/bene comune, è l’opposizione storica tra progressismo e tradizionalismo. Le sinistre sono storicamente state sempre favorevoli al progresso; a questo atteggiamento, nel XIX secolo, non si opponevano tanto le destre liberali, quanto i reazionari, che al progresso contrapponevano il rispetto e la conservazione della tradizione. Tuttavia bisogna pur sempre ricordare che, dall’illuminismo alla maggior parte del XIX secolo, non si disgiungeva un progresso tecnologico da un progresso morale e sociale. È solo nel XX secolo che si finisce per esaltare il progresso tecnologico in quanto tale, scisso da qualunque altra forma di progresso morale e politico-sociale.

È interessante notare che però questo atteggiamento non distinse chiaramente destra e sinistra, per lo meno nel XX secolo; tanto che i primi adoratori del progresso tecnologico in quanto tale furono i futuristi (si veda l’esaltazione della mitragliatrice fatta da un esponente del movimento), che finirono generalmente per confluire nel movimento e poi nel partito fascista. Tuttavia, nella seconda metà del XX secolo, il “progressismo” ridivenne tratto distintivo delle sinistre.

Non stupisce dunque che le sinistre abbiano accolto con favore l’esaltazione acritica della “nuove tecnologie” e l’informatizzazione di tutti i servizi, che ha preparato il salto, imposto con le politiche pandemiche, verso il transumanesimo e il great reset, che, a quanto pare, non preoccupano il popolo di sinistra.

La questione diviene dunque particolarmente intricata e delicata. Se il progresso è la transizione al transumanesimo (o anche a ciò che Harari chiama “religione dei dati”) ben venga la rivalutazione della tradizione. E tuttavia tutto ha un limite. La critica alle derive tecnocratiche e transumaniste non può giustificare un rifiuto generale della modernità e l’esaltazione acritica della tradizione. La tradizione può essere un baluardo contro l’omologazione globalista e l’invasività della tecnologia. tuttavia non si può non ricordare che l’emancipazione della persona è stata resa possibile proprio dalla rottura del dominio della tradizione; i diritti di libertà individuali sono stati resi possibili proprio dall’abbattimento del potere della tradizione.

Neutralismo/atlantismo.

Un’altra incompatibilità è quella tra neutralismo pacifista e bellicismo imperialista. Essa non corrisponde, nemmeno storicamente, al discrimine tra destra e sinistra, tant’è vero che in Italia esistette un interventismo democratico prima dell’ingresso nella prima guerra mondiale.

Tuttavia l’ideale della pace fra i popoli fu chiaramente un valore centrale di tutti i partiti socialisti dalla loro nascita, tanto che il suo abbandono da parte dei socialisti tedeschi e francesi nel 1914 portò alla fine dell’internazionale socialista, e contribuì alla catastrofe della prima guerra mondiale, all’origine di tutti i mali d’Europa nel XX secolo (e probabilmente anche nel XXI).

Il valore della pace è inscindibile dalla scelta della neutralità (e non a caso la Svizzera, che scelse costitutivamente la neutralità diversi secoli fa, è un paese che è in pace da diversi secoli). Non si può promuovere la pace facendo parte di un’alleanza militare che promuove il continuo riarmo e prepara la guerra contro il resto del mondo.

Atlantismo, inteso come adesione piena all’alleanza atlantica, e promozione della pace non sono compatibili.

Fascismo/antifascismo.

A questa incompatibilità se ne sovrappone parzialmente un’altra, che ha percorso gli ultimi 100 anni di storia: quella tra fascismo e antifascismo. La sovrapposizione è parziale, perché, come è noto, il fascismo ha sempre esaltato il valore della guerra, ma non tutti gli antifascisti hanno assunto la pace come valore centrale. D’altra parte questa opposizione non si sovrappone nemmeno con la dicotomia destra/sinistra, dato che è storicamente esistita una destra (per lo meno nel senso ottocentesco del termine) che ha combattuto il fascismo.

Ma in ogni caso la difesa delle libertà individuali non è compatibile con la tolleranza verso il fascismo, o addirittura il disprezzo per l’antifascismo. Sappiamo tutti che l’antifascismo viene ridotto, dalla cordata di potere che va sotto l’etichetta di “sinistra”, ad etichetta vuota, che ha la sola funzione di screditare la cordata di potere opposta; abbiamo visto tutti questo 25 aprile muoversi una folla immensa, in segno di protesta contro l’attuale governo, guidato da una compagine politica che ha una lontana origine nel Partito Nazionale Fascista, una folla che non ha mai avuto nulla da ridire contro i provvedimenti autoritari e incostituzionali dei governi precedenti.

E tuttavia non si può dimenticare il valore dell’antifascismo storico, che si oppose con grandi sacrifici all’uso della violenza nella lotta politica e all’esaltazione della forza pura, tipica del fascismo. Non si possono difendere le libertà individuali e non attribuire grande valore al movimento che quelle libertà individuali storicamente difese, per lo meno in Italia.

Sovranismo/globalismo.

Nella testa dell’appartenente medio al gregge della sinistra, la dicotomia fascismo – antifascismo viene accostata alla dicotomia sovranismo – globalismo. Non si può non vedere come ciò sia reso possibile ancora una volta dal completo oblio della (propria) storia. Almeno fino a tutti gli anni ’70 la sinistra di ispirazione comunista (maggioritaria in Italia) distingueva, non a torto, internazionalismo proletario e cosmopolitismo borghese. L’internazionalismo proletario era la solidarietà internazionale tra proletari, che avevano lo stesso interesse ad opporsi allo sfruttamento del capitale indipendentemente dallo stato-nazione all’interno del quale si trovassero.

Questo internazionalismo proletario non impedì mai alla sinistra, durante il lungo periodo della decolonizzazione (grosso modo 1947-1962, ma anche molto oltre) di solidarizzare con i vari movimenti anticolonialisti di liberazione nazionale, e di sostenere il diritto alla sovranità dei popoli che lottavano per liberarsi dagli imperi coloniali; anzi, fu uno dei motivi ideali di quella solidarietà. Dall’altra parte veniva posto il cosmopolitismo borghese, cioè la tendenza della borghesia detentrice del capitale a fondersi al di là delle frontiere e delle appartenenze nazionali.

Ora il cosmopolitismo borghese è andato al di là di sé stesso, costituendo un’élite apolide di miliardari che guida la globalizzazione, capace di sottomettere agli interessi del grande capitale transnazionale qualsiasi stato nazionale. E il popolo di sinistra tifa per la globalizzazione, condannando come “fascista” qualunque forma di difesa dello stato nazionale e della sua sovranità (ad eccezione naturalmente degli interessi degli Stati Uniti d’America, il cui popolo è l’unico universalmente autorizzato ad essere nazionalista senza essere tacciato di fascismo). Di modo che la difesa della sovranità nazionale diventa imprescindibile per chiunque voglia opporsi all’assetto di potere dominante.

E infatti una tendenza verso il sovranismo serpeggia in tutto il movimento del dissenso. Ma anche qui bisogna fissare dei limiti. La sovranità nazionale, che storicamente è stata connessa alla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini delle nazioni sovrane, per lo meno dalla Rivoluzione Francese in poi, va difesa contro i poteri che la sminuiscono, ma non dai poveri cristi che emigrano alla ricerca di condizioni di vita meno infami di quelle alle quali sono costrette, in gran parte proprio a causa delle effettive condizioni di non sovranità delle nazioni in cui sono nati.

Una giusta critica alle spinte verso le migrazioni, che le politiche economiche dominanti causano, non va confusa con l’ostilità contro i migranti.

I diritti umani inviolabili possono essere garantiti solo dalla potenza di uno stato sovrano che li faccia rispettare: ma essi sono universali e validi per tutti gli esseri umani. Il diritto di un giovane italiano a non rischiare la propria vita inoculandosi una terapia genica sperimentale deve essere difeso quanto il diritto di un giovane africano a non morire annegato nel mediterraneo, anche qualora abbia avventatamente scelto di attraversarlo su un gommone. La difesa della nazione, della sua lingua e della sua cultura non va confusa con la difesa della razza, oggi pudicamente sostituita dal termine etnia. Va ricordato che almeno per i primi due terzi del XIX secolo nazionalismo e democrazia procedettero di pari passo. Ma i nazionalisti democratici, come Mazzini, intendevano la nazione come un’entità storico-culturale, alla quale aderire per scelta, non per nascita, il che rese possibile a Byron e a Santorre di Santarosa di morire in Grecia combattendo per la sua libertà e per la sua sovranità nazionale. Fu solo nell’ultima parte di quel secolo, con l’emergere di teorie razziste e del darwinismo sociale (da non confondere affatto con il darwinismo tout-court) che prevalse l’identificazione della nazione col “sangue”, cioè con un’entità naturale e biologica data alla nascita, piuttosto che con un’entità storico culturale, alla quale si può aderire anche per scelta.

E questo tipo di idea di nazione trovò piena espressione nel razzismo nazista, fatto proprio successivamente anche dal fascismo. Chi paventa la “sostituzione etnica” e si oppone strenuamente allo ius soli sostiene implicitamente un’idea di nazione basata sul sangue, cioè una concezione razzista; altrimenti, invece di pensare a impedire agli immigrati di raggiungere il suolo italiano, e impedire ai loro figli di vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana, penserebbero a come migliorare la scuola per trasmettere nel modo migliore la storia, la lingua e la cultura italiana a chi chiede di poter vivere da noi, e ai bambini che non chiedono altro che di diventare uguali a tutti gli altri bambini con i quali crescono. E con degenerazioni razziste del sovranismo non ci si può accordare.

Altra cosa è la sacrosanta difesa della famiglia e del diritto di chiunque di fare figli e allevarli in condizioni dignitose.

La questione dell’ambiente: crescita illimitata/stato di equilibrio.

Infine, ma tra le più importanti, la questione dell’ambiente. Nemmeno essa è sovrapponibile all’antica dicotomia destra/sinistra, anche se si potrebbe sostenere che, mettendo al primo posto un bene comune (l’ambiente) l’ambientalismo ha a che fare idealmente con la storia della sinistra.

Tuttavia il primo movimento dei verdi, quello tedesco, nacque quando la sinistra, se era ancora apparentemente viva, aveva già in sé i segni della malattia che l’ha consumata.

L’ambientalismo poggia, come è noto, sulla disciplina dell’ecologia, quella branca della biologia che si occupa delle condizioni di esistenza delle diverse specie, costituite dalle molteplici relazioni che gli individui di ogni specie hanno con gli individui di tutte le altre specie (animali e vegetali) e con le caratteristiche fisico-chimiche dell’ambiente non vivente in cui si trovano. Essa ha una forte tendenza antiriduzionista, in quanto non spiega il funzionamento dei viventi attraverso l’analisi del funzionamento delle parti che li compongono e delle reazioni chimiche che lo rendono possibile, ma descrive l’insieme complesso delle interazioni tra specie che rendono possibile l’esistenza e la riproduzione degli individui di una specie e la loro evoluzione.

L’approccio basato sull’ecologia ha due caratteristiche essenziali. La prima è di considerare la specie umana alla stregua di tutte le altre, cioè una specie in relazione con il suo ambiente fisico-chimico e con le altre specie, che ne rendono possibile l’esistenza e la perpetuazione; la seconda, che deriva in parte dalla prima, è di mettere in risalto il concetto di limite: lo sviluppo della specie umana, come di tutte le altre specie, è possibile all’interno di limiti, definiti, come per tutte le altre specie, dalle possibilità di equilibrio dell’insieme di ecosistemi che ne rendono possibile l’esistenza.

Ora, si ha l’impressione che nel movimento “antisistema” serpeggi un sordo fastidio verso queste due caratteristiche. Ad esempio, quando qualcuno paragona la specie umana ad un parassita o addirittura ad una metastasi, non ci si prende la briga di capire il significato di queste analogie , ma si risponde con un’indignazione riservata solitamente al delitto di lesa maestà. Anche l’idea di limite sembra suscitare immediata antipatia, in quanto connessa con l’idea di restrizione: e pare che chi si è opposto alle restrizioni imposte dalle politiche pandemiche sia convinto di doversi opporre a qualunque restrizione.

È invece assolutamente indispensabile distinguere due cose: le politiche “green” e le conoscenze sui problemi del rapporto uomo-ambiente, basati sulla disciplina dell’ecologia e affini. È noto almeno dal secondo dopoguerra che il capitalismo ha la capacità di far propria qualunque idea e qualunque conoscenza stravolgendola per perpetuare sé stesso. Non stupisce dunque che anche le conoscenze dell’ecologia e le idee che su quelle conoscenze si basano vengano strumentalizzate dagli interessi del profitto per farne strumenti di marketing. Un esempio può essere la spinta verso le auto elettriche, che la U.E. vuole trasformare in un’imposizione. Si usa l’esigenza condivisibile di aria non inquinata per promuovere (e nel futuro imporre) un nuovo settore industriale che non potrebbe contribuire minimamente alla diminuzione dell’inquinamento né della CO2 nell’aria. Il problema dello stoccaggio dell’enorme quantità di batterie esauste che bisognerebbe buttare nell’ambiente non è risolto, come non è nemmeno affrontato il problema dell’enorme aumento dell’estrazione di terre rare (con i problemi di sfruttamento e inquinamento connessi con la loro estrazione) che una produzione di batterie su una scala enorme comporta. Per giunta la produzione di CO2 dipende dal modo di produrre elettricità: se la si produce bruciando combustibili fossili l’unico risultato della diffusione delle auto elettriche sarebbe lo spostamento della produzione di CO2 dall’interno delle città (o meglio, dai motori a combustione interna) all’esterno (ai motori a combustione interna usati per produrre elettricità).

Sembra però che all’interno del movimento del dissenso la giusta opposizione al cosiddetto “greenwashing” non si limiti alla contestazione delle politiche che si autoproclamano “green”, ma si spinga alla negazione delle conoscenze riguardanti l’ambiente. Sembra che prevalga una specie di ragionamento per analogia infondato, come spesso capita ai ragionamenti per analogia. Come le inaccettabili politiche pandemiche si sono basate su conoscenze che venivano spacciate per scientifiche ma erano in gran parte false o infondate, così le politiche ambientaliste, spesso inaccettabili, si basano su conoscenze parimenti false o infondate. Si dimentica che le pseudo-conoscenze su cui si sono basate le politiche pandemiche erano improvvisate, e basate su dati incompleti, spesso volutamente incompleti (basti pensare al radicale scoraggiamento, per non dire proibizione, delle autopsie nella fase iniziale della pandemia), mentre le ricerche sui problemi della relazione uomo ambiente sono iniziate almeno all’inizio degli anni ’60 (per non dire che il problema era già stato individuato da Marx come sostiene, non a torto, Ian Angus nel suo libro Anthropocene) e sono ben documentate.

In particolare c’è una negazione diffusa del nesso tra riscaldamento globale e aumento della quantità di CO2 (prodotta dall’attività umana) nell’atmosfera. Ora, nessuno nega che la questione sia estremamente complessa, che meriti costanti approfondimenti e che debba essere sottoposta a critiche e controlli rigorosi, come qualunque teoria scientifica. Ma si vorrebbero sentire critiche puntuali alle ricerche su cui si fonda l’obiettivo della diminuzione della produzione di CO2. In particolare si vorrebbero sentire critiche puntuali prima di tutto all’enunciato che sta alla base dell’affermazione che il riscaldamento terrestre è proporzionale alla quantità di CO2 presente nell’atmosfera, e cioè all’enunciato che l’anidride carbonica è più scura degli altri gas che compongono l’atmosfera, dunque un suo aumento rende l’atmosfera più scura, il che la porta ad assorbire maggiormente il calore solare, e dunque a riscaldarsi. Poi critiche al metodo dei carotaggi, che ha mostrato che negli ultimi 200.000 anni (cioè da quando esiste la specie Homo Sapiens Sapiens) la quantità di CO2 presente nell’atmosfera ha sempre oscillato, come ha oscillato il clima, ma non ha mai raggiunto le 400 parti per milione, mentre oggi siamo arrivati a superarle.

Infine vorremmo critiche puntuali al metodo delle simulazioni al computer, che ha mostrato che la simulazione che rende conto meglio dei dati effettivi rilevati è quella che combina effetti dell’aumento dell’attività solare con gli effetti dell’aumento della percentuale di anidride carboniche nell’atmosfera. Nel movimento per ora girano solo frasi fatte, che non entrano mai nel merito delle questioni che qui ho riassunto, e, d’altra parte, sembra non ci si renda conto che, se l’obiettivo della diminuzione della CO2 può essere strumentalizzato dagli interessi di una serie di settori economici emergenti, la negazione che l’aumento della CO2 sia un problema è sempre stata strumentalizzata (e finanziata) dalla consolidata industria dell’estrazione degli idrocarburi.

Inoltre sarebbe bene che si prendesse seriamente in considerazione l’indicatore dell’impronta ecologica (elaborato da M. Wackernagel e W.E. Rees nell’ormai lontano 1996), che mostra che l’impronta ecologica dell’umanità ha ormai superato la capacità di carico del pianeta, e dunque non solo è necessario arrestare la crescita, ma è necessario un processo di decrescita. Può ben darsi che si tratti di un indicatore sbagliato: ma se lo si rifiuta va conosciuto, e ne vanno mostrati errori e insufficienze. Se si può essere tutti d’accordo che le politiche green proposte dalla UE e dalle élite di Davos sono inique e vanno combattute, resta aperta la questione se le conoscenze che sono alla base dell’ambientalismo sono fondate o meno.

E si tratta di una questione centrale. Perché se tali conoscenze sono fondate, come io credo, allora un movimento che le consideri infondate è destinato alla sconfitta. Se è vero che l’umanità ha superato le capacità di carico del pianeta e che nessuna specie su un pianeta finito può continuare ad espandersi all’infinito, allora l’umanità si trova davanti ad una crisi epocale che la costringerà ad una ristrutturazione radicale del suo modo di esistere. Le élites dominanti hanno una risposta pronta a tale crisi. Si tratta di una risposta oligarchica, brutale e autoritaria, basata sul controllo capillare di ogni singolo individuo per mezzo delle tecnologie informatiche, e sull’abolizione dei confini tra natura e tecnologia, e tra corpo e web.

È un incubo, ma è una risposta già elaborata e in fase di applicazione.

Non sappiamo se potrà essere adattativa dal punto di vista biologico, ma è una risposta. Se il movimento si limita ad ignorare il problema, non avendo risposte da dare al problema cardine della nostra epoca, sarà destinato alla sconfitta.

Credo che abbia perfettamente ragione Andrea Zhok, che ha scritto in un post: “Un ordine del giorno serio che discuta dei problemi della sostenibilità deve partire da due punti. In primo luogo deve fare piazza pulita dell’idea, cara al capitalismo, per cui ai problemi ecologici si può porre rimedio con soluzioni di mercato. Questa idea è il cardine di tutte le odierne operazioni di greenwashing … Qui ogni inizio di discussione seria deve mettere in crisi il modello di crescita obbligata che sta al cuore del capitalismo; se non lo fa il resto è fuffa.”

Questo è il punto. Il problema che resta aperto è che nessuno ha idee chiare su come superare il modello capitalista di crescita obbligata. E che di fronte alla crisi di questo modello ci si sta preparando una via d’uscita iniqua, oligarchica e autoritaria. È inevitabile che vinca se non si elabora una via d’uscita alternativa basata sia sulla conoscenza, sia sull’equità e la partecipazione democratica e collettiva alla ristrutturazione della società e del suo scambio con la natura, generalmente chiamato economia.

9 maggio 2023