Il caso di Simone Ficicchia, appartenente a Ultima Generazione, ha suscitato nell’ambiente del dissenso politico delle reazioni che mi hanno allarmato, perché non nuove, ma testimonianze di un atteggiamento radicato e diffuso. Tenterò dunque di esplicitare ciò che mi allarma, e, per contrasto, per impostare la problematica ambientale nel modo che credo corretto.

La prima cosa che mi allarma è che, nel movimento del dissenso, sembra essersi diffusa un’espansione infondata del paradigma delle politiche pandemiche. Sembra, cioè, che continui a prevalere una generalizzazione indebita.

Le politiche pandemiche si sono basate sulla diffusione programmata di un terrore non giustificato dai fatti, e su una presunta difesa della salute collettiva, per indurre l’intera popolazione mondiale ad accettare restrizioni inaudite delle libertà fondamentali, conquistate dalla modernità mediante lotte e rivoluzioni costate molte vite umane, e per indurre anche ad accettare l’inoculazione di massa di un siero genico sperimentale pericoloso; restrizioni ed inoculazione di massa sono stati funzionali all’arricchimento smodato di un’élite, e ai suoi progetti di ristrutturazione socio-economica. Tali politiche si sono basate sull’uso ideologico della scienza. Le autorità politiche, controllate di fatto dal mondo economico finanziario, e i mezzi di comunicazione, asserviti a entrambi, hanno usato il concetto di scienza come instrumentum regni (funzione tradizionalmente svolta dalla religione). Hanno spacciato per scienza le affermazioni degli scienziati allineati con i poteri dominanti, e riconosciuti come tali dalla stampa e dalle televisioni. In realtà, hanno manipolato i dati, ingigantendone a dismisura il significato; hanno oscurato e screditato le posizioni degli scienziati in dissenso con la narrazione dominante, facendo credere che la scienza coincidesse con una posizione unica e monolitica che esclude il confronto e il dibattito; hanno imposto, col ricatto dello stipendio, dei sieri genici, soprannominandoli “vaccini” per puri motivi di marketing, dopo aver ridotto al minimo i controlli della loro efficacia e innocuità, normalmente condotti con il metodo scientifico. Hanno poi nascosto le informazioni sugli effetti avversi gravi, bollandole, quando trapelano, come “antiscientifiche”.

Nell’ambiente dei movimenti del dissenso si è di conseguenza diffusa l’idea che, dato che per combattere il problema del degrado dell’ambiente e del riscaldamento globale (ribattezzato “cambiamento climatico”) si propongono possibili restrizioni (come ad es. l’abbandono dei combustibili fossili e la loro sostituzione, impresa che ha indubbiamente un costo) in nome di un bene comune (la sopravvivenza dell’umanità), allora gli allarmi sull’ambiente devono essere ingiustificati come quelli sul virus, e le politiche proposte per far fronte al problema devono essere tutte necessariamente un trucco delle stesse élites per affermare i loro interessi.

Ma questa analogia ha qualche fondamento?

Le politiche pandemiche proposte erano (e sono) ingiustificate, perché fondate su presupposti falsi. Bastava studiare i dati ufficiali (in Italia quelli dell’ISS) per rendersi conto fin dall’inizio che l’allarme lanciato non aveva alcun fondamento nemmeno in essi; ora è assolutamente evidente che si cerca di oscurare i dati sugli effetti avversi dei vaccini, o, addirittura, si cerca di non raccoglierli nemmeno, in modo che non se ne possa parlare con qualche fondamento. Tutto ciò è nell’interesse dello sviluppo delle nuove frontiere del capitalismo: l’industria informatica e ciò che da essa dipende, e l’industria farmaceutica, in particolare il nuovo settore biotecnologico.

Perché l’analogia sia fondata, bisogna dimostrare che i dati sull’ambiente sono falsi o manipolati come quelli sulla “pandemia” sui vaccini e sui loro effetti. Bisogna anche chiedersi se tali dati, come i dati connessi al Covid19, fanno gli interessi delle élites che controllano i mezzi di comunicazione di massa, gli stati, le grandi finanziarie e i settori capitalistici emergenti. Affronterò subito questo punto.

È indubitabile che le questioni ambientali siano usate come strumenti di marketing. Una presunta ecologia è usata come strumento per vendere; una presunta sostenibilità ambientale viene usata per indurci a mangiare insetti; l’assenza di emissioni di gas climalteranti viene usata per promuovere la vendita di auto elettriche costosissime, che inquinano come le altre, se usano energia elettrica prodotta con combustibili fossili e scaricano poi nell’ambiente delle batterie esauste.

Ma il punto fondamentale è un altro: al di là del greenwashing, ossia dell’uso ideologico dell’ambientalismo come strumento di marketing, esiste effettivamente un problema dell’ambiente? I dati su cui si basano gli allarmi sulla situazione dell’ecosistema terrestre esistono? Sono affidabili? E sono, nella loro interezza, compatibili con la promozione di nuovi settori capitalistici?

I dati sono numerosissimi e convergenti. I primi dati furono raccolti negli anni ’60, e la prima trattazione organica del problema fu il famoso testo “I limiti dello sviluppo”, rapporto del Club di Roma pubblicato nel 1972; testo tanto citato quanto poco letto, a giudicare dalle sciocchezze che nel movimento del dissenso gli si attribuiscono, e che nel testo non sono scritte. In tale movimento questo testo è generalmente esecrato, ed etichettato come maltusiano (cosa, per chi usa questa etichetta, intrinsecamente cattiva); per giunta il Club di Roma è generalmente malvisto, forse perché secondo G. Magaldi si tratta di un’organizzazione paramassonica.

Il fatto è, però, che “I limiti dello sviluppo” è un testo di carattere scientifico, e, come qualunque testo scientifico esso cerca di descrivere alcuni fatti del mondo e di trarre previsioni da questa descrizione. Per criticare o screditare un testo scientifico bisogna fare una di queste tre cose:

  • invalidare la descrizione dei fatti;
  • individuare errori nel metodo utilizzato per elaborare i dati e produrre previsioni;
  • mostrare la falsità delle previsioni stesse.

Applicare un’etichetta  infamante (come lo è il maltusianesimo, per lo meno nelle intenzioni di chi la applica), o affermare (persino dimostrare) la cattiveria di chi l’ha scritto, non toglie né aggiunge assolutamente nulla alla validità di ciò che viene scritto.

Ora, non solo nel movimento del dissenso nessuno si è preso la briga di fare alcuna delle tre cose di cui parlavo sopra; ma nei quarantotto anni da quando io ho letto per la prima volta  “I limiti dello sviluppo”, non ho mai visto critiche serie del metodo usato. Sulle previsioni: prima degli anni ’20 del XXI secolo ovviamente non si poteva dire nulla, ma, dato che si tratta ora degli anni in cui stiamo vivendo, anche su questo si potrebbe forse incominciare a dire qualcosa.

Le uniche critiche fondate che sono state fatte al rapporto riguardano la valutazione della quantità di risorse disponibili; tuttavia queste critiche sono relativamente irrilevanti, e vedremo tra poco il perché. Per vederlo bisogna esporre le tesi principali sostenute da quel libro: impresa ardua da condurre in un numero ragionevole di righe, ma ineludibile. Cercherò dunque di riassumere in poche frasi le tesi e le proposte del rapporto.

Dopo che il sistema-mondo è stato riassunto nell’andamento di cinque variabili fondamentali (dalle quali dipendono molte altre), la tesi fondamentale è che la crescita delle cinque variabili sia stata, fino al momento della scrittura del rapporto, di tipo esponenziale, e che non possa continuare esponenzialmente a tempo indeterminato, perché questa crescita esponenziale determinerà un crollo catastrofico di tutto il sistema-mondo così descritto (cioè di tutte e cinque le variabili) entro il XXI secolo. Di modo che le critiche sugli errori di valutazione delle risorse disponibili sono irrilevanti: gli autori ammettono possibili errori nella valutazione delle risorse, e provano simulazioni del sistema mondo, introducendo nel loro modello disponibilità di risorse molto maggiori di quelle da essi valutate: in questo caso il crollo avviene entro la fine del XXI secolo, invece che entro la sua prima metà, come previsto nel caso le valutazioni della disponibilità di risorse fossero corrette, ma avviene ugualmente.

Le proposte contenute nel rapporto sono più facilmente riassumibili: bisogna agire contemporaneamente su tutte e cinque le variabili considerate, per arrivare a interromperne la crescita esponenziale; e ricondurle alla stabilità, arrivando a un sistema in equilibrio. Sarebbe possibile in questo modo portare il reddito pro capite alla pari con quello europeo (del 1972, ovviamente), purché si provveda ad una redistribuzione della ricchezza, condizione necessaria, questa, perché anche il mondo povero possa arrivare a un’interruzione della crescita esponenziale.

Una sola cosa va qui aggiunta: che le variabili principali che devono interrompere la crescita sono: la popolazione e il capitale.

La proposta del raggiungimento dell’equilibrio demografico suscita tuttora lo sdegno dei cattolici di destra, e anche di destrorsi non cattolici all’interno del movimento del dissenso. Costoro, invece di sdegnarsi, farebbero meglio a chiedersi se, per una perpetuazione di condizioni decenti della vita umana è opportuno che si raggiunga un equilibrio demografico o no. Per quanto riguarda il capitale, invece, bisogna ricordare che la proposta dell’interruzione della crescita del capitale equivale alla proposta di fuoruscire dal capitalismo, dato che l’economia capitalistica implica un incremento costante del capitale. Va anche aggiunto che in nessuna parte del testo si asserisce che l’interruzione della crescita, e il raggiungimento dell’equilibrio che dovesse conseguirne, vadano imposti dall’alto.

Nei quasi cinquant’anni che ci separano dalla pubblicazione de “I limiti dello sviluppo” (e dalla presa di coscienza generale della gravità del problema dell’ambiente da tale testo provocata), e nei trent’anni che ci separano dalla conferenza di Rio de Janeiro (nella quale, nel 1992 l’ONU riconobbe ufficialmente la gravità del problema dell’ambiente e la serietà della questione del riscaldamento globale), non solo non sono comparse ricerche che smentissero credibilmente la pubblicazione del Club di Roma, ma è emersa una grandissima quantità di dati che confermano in modo impressionante la gravità del degrado ambientale provocato dalle attività umane.

Nel frattempo, negli anni ’80 ci si rende conto dell’esistenza di un processo di riscaldamento dell’atmosfera e della sua serietà. Non posso dilungarmi a riassumere il dibattito anche su questo tema. Qui basti ricordare che, dalla conferenza di Rio in poi, la stragrande maggioranza dei climatologi è ed è stata concorde nell’affermare che la produzione di gas che rendono più scura l’atmosfera terrestre (CO2 e metano, ma non solo) è una componente importantissima del riscaldamento del clima in atto. Nessuno nega che ciò sia dovuto anche a cause naturali (fondamentalmente l’aumento dell’attività solare); ma i modelli esplicativi che meglio spiegano il riscaldamento in atto e il suo andamento sono quelli che combinano cause naturali ed emissione di gas serra prodotti dalle attività umane. È il caso di ricordare che è nell’interesse dei produttori di combustibili fossili (in primis delle potentissime multinazionali del petrolio) negare l’importanza delle attività umane nel causare il riscaldamento globale (poi ribattezzato “cambiamento climatico” per mitigare gli effetti allarmanti della locuzione precedente); ed è il caso di ricordare anche che ci si concentra maggiormente sulle cause antropiche del riscaldamento per l’ovvio motivo che le attività umane sono modificabili, quelle solari no.

Negli anni ’90 il ricercatore svizzero Mathis Wackernagel e il canadese William Rees (allora entrambi docenti alla University of British Columbia) elaborarono l’indicatore chiamato “Impronta Ecologica”, illustrato nel libro omonimo pubblicato nel 1996 e tradotto in italiano nel 2000, nel quale spiegarono sia il concetto di impronta ecologica che i metodi di calcolo impiegati per misurarla. Riassumendo al massimo si può dire che l’impronta ecologica corrisponde alla quantità di territorio e di risorse (come acqua e aria) necessarie a produrre i beni necessari a sostenere una determinata popolazione con il suo determinato stile di via, e ad assorbirne i rifiuti. Ciò ha permesso di stabilire che l’impronta ecologica globale (cioè dell’umanità in toto) è ben superiore alla capacità di carico del pianeta, che corrisponde grosso modo all’area del pianeta utilizzabile per attività produttive, insediamenti umani e smaltimento dei rifiuti. Inutile dire che il superamento delle capacità di carico del pianeta è dovuto principalmente ai paesi ricchi, che hanno un’impronta ecologica ben superiore alla capacità di carico dei loro territori, mentre la maggioranza dei paesi poveri (eccetto che quelli sovrappopolati e quelli desertici) hanno un’impronta ecologica inferiore alla capacità di carico dei loro territori (il che equivale a dire che, se non si è ancora raggiunta una crisi catastrofica, lo si deve ai paesi poveri).

Secondo l’ultimo Living Planet Report (2022) l’impronta ecologica dell’umanità è superiore alla biocapacità del pianeta del 75%, il che equivale a dire che occorrerebbe un altro pianeta grande i ¾ della terra per continuare indefinitamente a produrre e consumare con il ritmo attuale (senza aumentarlo). Tutto questo indica che, se negli anni ’70, quando “I limiti dello sviluppo” fu pubblicato, il problema era rallentare la crescita per raggiungere l’equilibrio, ora per raggiungere l’equilibrio è necessaria una decrescita, cioè una diminuzione della velocità del ciclo produzione-consumi.

Pare proprio che i dati attuali non smentiscano le previsioni dei “I limiti dello sviluppo”; non solo, ma la situazione economica europea e il continuo ricorso alla guerra negli ultimi trent’anni costituiscono segnali sinistri del possibile crollo imminente di tutto il sistema.

Come se non bastasse, a partire dagli anni ’90 del XX secolo sono emersi dati che hanno dimostrato che un numero crescente di specie si stanno estinguendo. I dati raccolti (sintetizzati poi dal WWF nel living planet index) suggeriscono che il sistema della vita nel nostro pianeta stia andando incontro alla sesta estinzione di massa di esseri viventi, dopo le altre cinque avvenute nelle ere geologiche passate (l’ultima delle quali portò all’estinzione dei dinosauri), estinzioni che hanno portato all’estinzione di interi phyla di viventi; tali dati sono numerosi, significativi e concordanti. In una sesta estinzione non è affatto improbabile che la specie umana, molto evoluta, ma anche fragile, e più di altre dipendente da un gran numero di condizioni irripetibili, sia una delle specie destinate a estinguersi, come si estinsero i dinosauri aprendo la strada al successo evolutivo dei mammiferi. Scandalizzarsi perché qualcuno pensa che siamo di fronte alla angosciante prospettiva dell’estinzione della specie umana, e perché qualcuno viene a dire che dopo tutto questo sarebbe il male minore, se permettesse alla vita di continuare ad evolversi sulla terra, è un atteggiamento infantile e irresponsabile.

Tutti i dati convergono nel mostrare che la civiltà “occidentale”, che ha impigliato nella sua rete l’intera umanità, ha imposto a quest’ultima un modello di vita e di produzione insostenibile dalla natura in cui l’uomo vive, e che ne ha determinato la comparsa. Si tratta del modello economico basato sulla crescita continua del ciclo produzione-consumo, detto in modo più sintetico e appropriato capitalismo, che è ovviamente incompatibile con la finitezza del pianeta terra (e di qualsiasi altro pianeta, per quanto grande). Di modo che la questione ambientale è la sfida principale che l’umanità deve affrontare in questo momento storico.

Di fronte a questa sfida ci sono, a parer mio, tre risposte possibili.

La prima è quella tecnologico-totalitaria e fintamente progressista, che è in atto. Dal punto di vista psicologico la si potrebbe chiamare anche ossessivo-compulsiva. Consiste nel progetto di salvare sia l’umanità che il modello capitalistico, con il “great reset” e il transumanesimo. Si tratta di far saltare la separazione tra uomo e natura, tra civiltà umana e ambiente. Di costruire una sola enorme tecnostruttura, guidata da una ristrettissima élite tecnologico-finanziaria in cui anche l’uomo diventi un prodotto tecnologico, sottoposto a un livello di controllo, reso possibile dalla tecnologia, in confronto al quale il controllo esercitato dallo stalinismo e dal nazismo diventano cosette da dilettanti. La distopia di riferimento non è tanto (o non solo) “1984” di Orwell, quanto “Il mondo nuovo” di Huxley. L’ho chiamata ossessivo-compulsiva perché, per far fronte alle sfide che la stessa civiltà ha creato, non prevede alcuna risposta nuova, ma solo il potenziamento e l’esasperazione di alcune modalità che la caratterizzano da almeno un paio di secoli.

L’uso massiccio delle tecnologie industriali ha provocato il degrado e l’incipiente distruzione dell’ambiente naturale che ha reso possibile l’evoluzione della specie umana e la sua sopravvivenza? Usiamo un numero maggiore di tecnologie, sempre più complicate! L’economia competitiva di mercato spinge verso un aumento esponenziale dei consumi e dei rifiuti, che compromette l’ambiente? Mercifichiamo l’intero ambiente, e mettiamolo sul mercato! Mercifichiamo l’acqua, le emissioni di CO2 nell’aria, le foreste con le loro emissioni di ossigeno e quant’altro, e scambiamole sul mercato!

La seconda risposta è quella che definirò conservatrice, o, dal punto di vista psicologico, infantile-negazionista: essa consiste nel negare la validità delle risposte alla sfida ambientale usualmente proposte, senza fare proposte alternative, ma negando di fatto la gravità del problema. Si accusano giustamente le proposte dei poteri dominanti per far fronte alla crisi ambientale di essere solo tecniche di marketing, pretesti per fare gli interessi di nuovi settori industriali. Tuttavia non si elaborano proposte più convincenti e più serie per far fronte al problema ambientale. Ci si illude che sia possibile semplicemente opporsi alle proposte di tipo restrittivo che vengono propagandate, lottando per restaurare le libertà di cui si godeva prima della pandemia. All’illusione che sia possibile tornare indietro e continuare come al solito, si accompagna un atteggiamento infantile, consistente nell’evitare di accertare i fatti e di conoscere la situazione, sostituendo questa scomoda attività di ricerca con l’individuazione del nemico da screditare e dell’amico (o del genitore buono), in cui credere. Si tratta di una posizione infantile speculare a quella della maggioranza che ha creduto nei governi e nelle politiche sanitarie da essi imposti.

Scrivevo in un articolo pubblicato nel giugno 2021:

“il gregge dei neominorenni deve essere a quanto pare istruito non a giudicare autonomamente le argomentazioni e la metodologia delle posizioni proposte, ma a giudicare la fonte di tali informazioni, esattamente come si fa con i bambini. Dato che i bambini non hanno una facoltà di discernimento sufficientemente sviluppata, per evitare che si mettano nei guai si insegna loro a fidarsi di familiari, parenti e conoscenti, e a non fidarsi degli sconosciuti. Si dice: non accettare caramelle dagli sconosciuti! Tutto questo comporta … la riduzione di qualunque posizione allo schema elementare amico/nemico. Tutto quel che viene dal nostro gruppo …è affidabile e vero; quello che viene dagli altri, i nemici… è a priori falso, e non va preso nemmeno in considerazione.”

Tutto questo lo riferivo alla stragrande maggioranza che seguiva i governi e l’informazione dominante delle virostar televisive. Ma pare che il movimento del dissenso abbia l’atteggiamento speculare. Tant’è vero che di fronte al caso di Simone Ficicchia, e al movimento Ultima Generazione, di cui Ficicchia fa parte, non si va a conoscere quali siano le posizioni di Ficicchia e di Ultima Generazione, e a verificare se siano fondate o meno; ma si va a vedere chi li finanzia e con quali altre realtà sono in relazione.

Se Emma Bonino si mette a dire che in Siria la neve è verde, un adulto responsabile non va a vedere se la Bonino è finanziata da Soros, ma va in Siria ad osservare la neve. E se Matteo Messina Denaro dice che 7×8=56 un adulto responsabile non va a cercare l’elenco dei delitti commessi dal sunnominato mafioso, ma fa il conto, sommando il numero 8 con sé stesso per 7 volte, per vedere se l’affermazione di Messina Denaro è vera. Un bambino, invece, cercherà di capire se (secondo i genitori) Emma è buona o cattiva, o Matteo è buono o cattivo. Questo tipo di risposta, che ho chiamato conservatrice, essendo basata sulla sottovalutazione, o, meglio, sulla valutazione inadeguata del problema, è destinata al fallimento, e non è in grado di costituire un’opposizione efficace alla risposta tecnologico-totalitaria.

La terza risposta è quella che chiamerò della decrescita libertaria, o, dal punto di vista psicologico, adulto-adattativa. Quest’ultima, purtroppo, se è stata indicata da qualche intellettuale, non mi pare che abbia trovato per ora alcun movimento sociale o politico in grado di incarnarla.

Questa risposta riconosce prima di tutto la gravità e l’urgenza del problema, stante che l’impronta ecologica dell’umanità sul pianeta ha superato da tempo la capacità di carico (o biocapacità) del pianeta. Ma non crede che la risposta possa essere semplicemente tecnologica e interna al modello economico-produttivo dominante. La risposta deve essere economica, politica e sociale. E, dato che, come dicevo, l’impronta ecologica dell’umanità ha da tempo superato la biocapacità del pianeta, tale risposta deve essere basata sulla decrescita, cioè sul rallentamento del ciclo produzione-consumo da parte di tutti quei paesi la cui impronta ecologica supera la biocapacità del pianeta.

Questa è la strada già indicata da più quindici anni fa da Serge Latouche, e in Italia da Maurizio Pallante: di essa, purtroppo, non si sente quasi più parlare. Si tratta di una risposta evidentemente incompatibile con la sopravvivenza del capitalismo. Si tratta anche di una risposta assolutamente congruente con l’indicazione di Ugo Mattei di spostare risorse dal capitale ai beni comuni. Ma una tale risposta comporta un grandioso progetto politico di democratizzazione della società, che non può che opporsi alla globalizzazione; quest’ultima comporta per forza di cose un’economia centralizzata a livello mondiale e di conseguenza controllata da una minuscola élite potentissima.

Un’economia centrata sulla decrescita e i beni comuni può vedere la luce solo se è sottoposta al controllo diretto dei lavoratori associati, e solo se si costituisce come economia di prossimità, sottoposta al controllo democratico di chi usufruisce di tale economia e la fa funzionare. È una risposta che comporta anche una grande rivoluzione del sistema di valori che ispira i comportamenti della stragrande maggioranza delle persone.

Sono convinto che Resistenza Radicale e chi vuole fondatamente opporsi alla deriva tecnologico-totalitaria dominante debbano farsi promotori di questo tipo di risposta alla crisi ambientale.  Ciò comporta un corretto uso delle conoscenze scientifiche sull’ambiente e soprattutto che non ci si lasci irretire dalle sirene di un pensiero reazionario, antiscientifico, antiilluministico e antimoderno che serpeggia nel movimento antisistema. È evidente che la risposta tecnologico-totalitaria in atto è lo sviluppo patologico della modernità; ma non si può negare che la modernità e l’illuminismo, che ne è stata l’espressione più compiuta e più alta, abbiano portato all’uomo valori e realizzazioni irrinunciabili: l’affermazione, implicita nella scienza, dello spirito critico contro il pregiudizio e l’affermazione aprioristica dell’autorità; l’emancipazione dell’uomo dal servaggio, fisico e intellettuale; l’affermazione dei diritti inalienabili di libertà; i valori di uguaglianza e fratellanza.

 

di Aligi Taschera
Fondatore di Resistenza Radicale