Crisi sistemica e movimento
9 luglio 2022 – PAROLE RADICALI, SCRITTI E CONTRIBUTI
di Aligi Taschera
Ho visto qualche mattina fa sul canale Telegram del Cln Milano un messaggio attribuito a Nandra Schilirò, del quale riporto alcuni passaggi significativi: “I tamponi sono le catene con cui tengono incatenata la popolazione alla fiction pandemica. La fiction si regge su due punti cruciali: Tamponi farlocchi…..Terrorismo dei media…..Senza queste due armi il Sistema non sarebbe mai riuscito a costruire il castello della farsa pandemica. L’élite ha sempre bisogno di catene (paura) per bloccare l’evoluzione dell’Uomo. Queste si possono chiamare: tamponi, Climate Change, crisi alimentare, crisi energetica, inflazione, o altro. Proiettano e costruiscono attorno all’Uomo un mondo di Paura per tenerlo imprigionato…”
Queste affermazioni non mi lasciano solo molto perplesso: mi allarmano. Mi allarmano per l’importanza e l’autorevolezza del personaggio che le esprime, e perché sono l’espressione sintetica di un’ideologia che sembra prevalere nel movimento che si oppone al green pass e alle politiche pandemiche, cioè nell’unico movimento che si oppone attualmente ai poteri dominanti.
In sintesi estrema, questa ideologia si può esprimere come segue. I poteri transnazionali (ma prevalentemente “occidentali”) dominanti (quelli che vengono anche chiamati deep state) hanno strumentalizzato un’epidemia di influenza relativamente grave, ingigantendone la gravità in modo spropositato e terrorizzando la popolazione mondiale, non solo allo scopo di arricchire oltre misura i comparti emergenti dell’economia globalizzata (l’industria informatica e quella biotecnologica), ma per imporre, scavalcando il sistema di diritti tipico delle democrazie (gravissimamente danneggiato dalle politiche pandemiche), oltre a un siero genico soprannominato vaccino, una trasformazione economica, tecnologica e politica che viene chiamata in molti modi: Great Reset, Quarta rivoluzione industriale, o anche passaggio al transumanesimo. E fin qui sono convinto che si tratti della realtà che stiamo vivendo.
Ma quello che è inaccettabile è il passaggio che viene fatto di conseguenza: qualunque problema grave di cui si parli, come la questione del degrado dell’ecosistema nel quale viviamo, che ha tra l’altro come sintomo il cambiamento climatico (locuzione che, ricordo, ha sostituito la locuzione “riscaldamento globale”, che suonava più allarmante), o anche le questioni dell’approvvigionamento idrico, alimentare ed energetico sono questioni drammatizzate ed ingrandite dalla stampa asservita agli interessi dei poteri dominanti transnazionali, allo scopo di creare un panico artificiale utile a sottomettere la stragrande maggioranza della popolazione. Questi problemi, in realtà, non sarebbero così gravi, e basterebbe spezzare le catene create dalla paura per avere un mondo meraviglioso. Scrive infatti la Schilirò (o chi per lei: ricordiamoci che quel che ho riportato è una citazione di un passo attribuito alla Schilirò, ma non sono riuscito a verificarne l’autenticità) nel prosieguo della citazione di cui sopra: “Ma il tempo della paura è finito, l’uomo sta spezzando le catene e sta diventando consapevole di chi è veramente. Senza catene il mondo sarà meraviglioso.”
Temo che questo atteggiamento sia esattamente speculare a quello dei sostenitori del great reset, e che esprima lo stesso atteggiamento di fondo: la negazione della realtà di una crisi sistemica senza precedenti, che deriva dalla distruttività del modello socioeconomico dominante, basato sulla crescita continua ed infinita del ciclo produzione-consumo in un pianeta che, necessariamente, è finito e limitato.
Questa negazione, nella cultura dominante, assume a forma del delirio di grandezza. In questa versione il problema della crisi ambientale e climatica esiste. Ma questo problema può essere risolto con un potenziamento della tecnologia informatica portato fino al controllo capillare di ogni interazione umana e di ogni comportamento, e fino al superamento della separazione e della distinzione tra essere umano, inteso come entità biologica, e tecnologia, fino alla modificazione tecnologica della vita stessa (le tecnologie bioingegneristiche). L’uomo arriverà a modificare la sua propria natura in modo da diventare docile strumento nelle mani di un’élite tecnologica capace di controllare l’intero sistema uomo-macchina, che si svilupperà in modo da evitare lo scontro con un mondo naturale non più concepito come esistente autonomamente dalle tecnologie umane, ma come un tutto integrato nelle tecnologie stesse. Yuval Harari, noto storico israeliano, in una conferenza tenuta al W.E.F. il 31/1/2018 è arrivato a dichiarare: “Tutta la vita…è stata soggetta alle leggi della selezione naturale e alle leggi della biochimica organica. Ma questo ora sta per cambiare. La scienza sta sostituendo l’evoluzione tramite selezione naturale con l’evoluzione tramite design intelligente….E nello stesso tempo la scienza può rendere possibile che la vita, dopo che è stata confinata per 4 miliardi di anni nel regno limitato dei composti organici, emerga nel regno inorganico” In altre parole, l’uomo, con la sua tecnologia, si sostituirà a Dio.
Dall’altra parte si reagisce alla stessa crisi sistemica con la negazione, forma patologica non meno grave del delirio di grandezza. Il problema dell’ambiente, se esiste, non è poi così grave, e non richiede, per la sua soluzione, una restrizione o addirittura un’interruzione della crescita infinita del ciclo produzione-consumo; il riscaldamento globale, se c’è, non è dovuto all’attività umana, e non è che una normale oscillazione della temperatura terrestre, come ce ne sono sempre state. E’ così che Fabio Massimo Nicosia, presidente del Partito Libertario, il 30 giugno scrive: “E’ così che… una calura qualsiasi, come ne ho viste decine in sessant’anni, diventa emergenza idrica”. D’autorità, con l’esperienza dei suoi sessant’anni e passa, il nostro stabilisce che si tratta di una calura qualsiasi, sdegnando di controllare dati quantitativi riguardanti le temperature e anche i livelli idrici. Non sto a dire che, a settant’anni e passa, non ho mai visto il lago di Como (che frequento da quando ho memoria di me) così basso come lo vedo da tre o quattro anni. La questione non sono le nostre esperienze soggettive (sulle quali, pure, dobbiamo fare affidamento: due anni fa mi è capitato di vedere una foto del ghiacciaio della Marmolada, che non vedevo più da quando ero adolescente. Mi sono profondamente intristito, vedendolo ridotto a meno della metà di quel che conoscevo io. Infatti, nei giorni scorsi, è successo quel che è successo).
La questione sono i dati oggettivi, le misurazioni e tutto il lavoro scientifico che negli ultimi cinquant’anni è stato fatto sulla questione dell’ambiente.
Non è in questa sede possibile riassumere tutti i dati che suffragano l’idea che l’organizzazione socioeconomica esistente e predominante al momento sia insostenibile perché incompatibile con gli equilibri ecosistemici che permettono la perpetuazione della vita umana sulla terra, e anche l’idea che la questione della componente antropica del riscaldamento del clima sia importantissima, e sia un sintomo grave dell’insostenibilità del modello socioeconomico dominante. La letteratura su queste questioni è sterminata. Qui mi limito a ricordare poche cose. Per quanto riguarda il clima e le emissioni di CO2, i carotaggi dei ghiacci antartici hanno mostrato che le concentrazioni di CO2 in atmosfera negli ultimi 400.000 anni hanno sempre oscillato tra le 200 e le 280 parti per milione (ppm), mentre oggi siamo vicini alle 450 ppm. Negli ultimi trent’anni le temperature medie, in leggera crescita per tutta la seconda metà del XX secolo, sono salite a livelli senza precedenti. I modelli computerizzati che meglio di tutti rendono conto di questo riscaldamento sono quelli che combinano cause naturali (intensificazione dell’attività solare) e cause antropiche (l’aumento della quantità di CO2, di metano e di altri gas serra nell’atmosfera causato dalle attività umane). Non si possono annullare questi dati con un fiat, e nemmeno facendo ricorso al principio di autorità (dicendo ad esempio che un noto fisico -ma non, non a caso, un climatologo- nega la realtà del riscaldamento globale). Per negarla bisogna analizzare e contestare i metodi di raccolta dati utilizzati, oppure contestare i metodi di simulazione utilizzati per spiegare il fenomeno, entrando nel merito dei metodi usati.
Occorre tempo e competenza. Altra cosa da ricordare è che già dieci anni fa l’impronta ecologica[1] dell’umanità era 1,5. Il che significa che già allora l’umanità, per consumare e produrre con lo stesso ritmo di allora, avrebbe avuto bisogno di un altro pianeta grande la metà della terra. Mi mancano dati attuali, e non ho voglia di lavorare per cercarli. Ma mi sento di escludere che la situazione sia migliorata. Per chi non conosce il concetto di impronta ecologica, rinvio al bel libro di Wackernagel e Rees che porta lo stesso titolo. Mi limito ad aggiungere di nuovo che questi dati non possono essere contestati perché potrebbero essere usati per imporre restrizioni: per contestarli bisogna analizzare il metodo di misura proposto da Wackernagel e Rees e dimostrarlo invalido, o/e contestare i metodi adottati per raccogliere i dati utilizzati per calcolare l’impronta ecologica. Il che significa studiare e condurre attività di ricerca, non fare affermazioni prive di giustificazioni.
Credo sia quasi impossibile mettere in dubbio l’affermazione che siamo da qualche tempo all’interno di una crisi sistemica senza precedenti: una crisi che coinvolge tutto il sistema produttivo, il rapporto tra l’uomo e la natura e le organizzazioni sociali e politiche che regolano i rapporti reciproci degli esseri umani. E questa crisi va affrontata in modo costruttivo, non con deliri di grandezza, né mettendo la testa sotto la sabbia, cioè negandone l’esistenza.
Come? Purtroppo non ho la ricetta, come nessun altro. Ma credo che alcune cose vadano ricordate, e altre possano venir dette.
Prima di tutto devo ricordare che la coscienza dei problemi ambientali si diffuse (in termini un po’ diversi da quelli odierni e qui utilizzati) verso la fine degli anni ’70 del ‘900 in ambienti minoritari ma significativi, e in particolare tra i radicali. Già allora si prevedeva che la crisi sarebbe diventata significativa nel terzo decennio del 2000; e già allora si prevedeva che ci sarebbe stato un tentativo autoritario o addirittura totalitario per affrontarla. Già allora si temeva che il “modello cinese” fosse alle porte, e che, per evitarlo, fosse assolutamente necessario cambiare strada. Ma invece di cambiare strada il mondo andò entusiasticamente verso un’esasperazione di tutte le caratteristiche del modello dominante, aumentando, con la globalizzazione neoliberista, l’accelerazione del ciclo produzione-consumo e in questo modo potenziando la distruzione degli ecosistemi e la produzione di sostanze inquinanti.
Ora siamo al redde rationem, e il modello cinese, ipertecnologico e totalitario, è in via di attuazione. Non si può certo contrastare questo processo negando l’esistenza del problema. E non ci si può illudere che basti rivendicare il rispetto della costituzione e il ripristino dei diritti fondamentali alla base degli stati democratico-liberali. Sono infatti gli stati democratico-liberali che ci hanno portati qui; è l’Italia della costituzione antifascista rigida che è diventata quello che è ora. Bisogna saper immaginare una nuova direzione alternativa a quella dominante. Bisogna elaborare una nuova utopia che costituisca la stella polare che permetta l’orientamento per chi si voglia opporre alla soluzione tecnologico-totalitaria alla cinese. Bisogna andare verso una società dell’equilibrio tra sistemi umani e natura. Una società che riduca al minimo i livelli di violenza nelle relazioni tra gli uomini, ma prima di tutto riduca al minimo i livelli di violenza dei sistemi umani contro la natura; che riconosca la natura come un tutto preesistente all’uomo e a lui indisponibile; che riconosca, in una parola, la sacralità della natura (natura umana compresa). Ma questo non può essere fatto semplicemente restaurando la democrazia come l’abbiamo conosciuta: la democrazia deve essere approfondita ad ogni livello. Bisogna che gli esseri umani associati (comunemente detti popolo) pretendano di recuperare il controllo sui processi storici ed economici. Bisogna che la delega di potere venga ridotta al minimo; bisogna che i lavoratori arrivino a controllare direttamente i processi produttivi.
E’ possibile che un’accozzaglia di gruppi, movimenti e partitelli di ispirazioni ideali diverse e spesso incompatibili arrivi ad elaborare un’alternativa di questo tipo, capace di essere risposta credibile alla crisi sistemica? E’ molto dubbio. Ma questo è il compito ineludibile che deve fare chi vuole evitare che si affermi un neototalitarismo peggiore di quelli che abbiamo conosciuto nel XX secolo.
[1] L’impronta ecologica è la quantità di territorio indispensabile per produrre i beni necessari alla perpetuazione di una data comunità umana con il suo stile di vita e il suo sistema produttivo, e ad assorbirne i rifiuti.