Introduzione di Lidio Maresca, fra i fondatori di Resistenza Radicale.
L’abolizione del green pass deve essere la conseguenza della civile protesta della gente, in modo che venga meno e definitivamente ciò che viene contrabbandato in modo sotterraneo e che è rappresentato dalla imposizione di un’identità digitale.
La discriminazione è aberrazione e in quanto tale deve essere estirpata dalle regolamentazioni di uno stato che aspira a ritornare ad essere democratico. Quali sono le ragioni di una protesta di fronte alla sordità delle istituzioni?
E quanto può essere forte e determinante la mitezza rappresentata dalla nonviolenza? L’ho chiesto a Carlo Cuppini, “lavoratore in ambito culturale”, come si autodefinisce, in sciopero della fame contro le discriminazioni.
Le considerazioni di Carlo Cuppini
Mi chiamo Carlo Cuppini, sono uno scrittore, un redattore editoriale, lavoro in ambito culturale a Firenze.
Il 14 febbraio ho intrapreso uno sciopero della fame della durata di otto giorni, per protestare contro il sistema di discriminazione e segregazione rappresentato da green pass e super green pass. Con Sergio Porta prima, e poi anche con altre donne e uomini che si sono ritrovati intorno a questa necessità fisica e morale di dare un segno di completo e definitivo dissenso, ho percorso questa strada; una strada che in forma diverse continua ancora oggi: tutti i lunedì, io e altre persone digiuniamo; e lo faremo fino a completa, reale rimozione di ogni forma di discriminazione e vessazione, cogliendo questa occasione ricorrente per svolgere riflessioni e tornare a indicare lo scandalo di un Paese che ha abbandonato la tradizione del liberalismo, di un governo che non esita ad aizzare la parte maggioritaria della popolazione contro una minoranza, minorenni compresi, come in Cina durante la “rivoluzione culturale”.
Il nostro sciopero della fame è iniziato a metà febbraio ed è stato una risposta al regime di vera, letterale segregazione inaugurato con il super green pass – un regime in cui neanche con un tampone negativo diritti e opportunità essenziali erano garantiti a chiunque. Successivamente, il 9 aprile siamo andati a Roma, per manifestare il nostro totale dissenso e la nostra più grave preoccupazione per le modalità in cui è stata impostata la progressiva uscita dall’eccezionalità normativa dello stato di emergenza. Crediamo che questo sia il modo peggiore e più pericoloso per mettere fine (forse, parzialmente, provvisoriamente, soltanto finché “i dati lo consentono”?) a una deriva che ci ha allontanati drammaticamente dallo Stato di Diritto: perché il ritorno a una normalità – sottolineo parziale, pro tempore e a oggi non per tutti – appare come l’ennesima elargizione di cui essere grati, e non come il ripristino ovvio, inevitabile, imperdonabilmente tardivo, di una condizione giuridica e sociale preesistente. Crediamo che l’abolizione del green pass dovrebbe essere accompagnata da un moto di coscienza esteso, da una critica collettiva di quanto è successo, attraverso un dialogo interno alla Comunità che costringa anche i decisori alla dignità di una sobria e seria autocritica.
Noi abbiamo cercato di dare un contributo, di suscitare delle riflessioni su quello che consideriamo intollerabile, ingiusto, devastante e inefficace: un intollerabile modo del potere politico di perseguire alcuni obiettivi – legittimi o non legittimi, buoni o cattivi, non è neanche questo il punto: il punto è proprio la modalità con cui questi obiettivi vengono perseguiti.
La questione che si pone oggi con grande urgenza è l’eredità della gestione del covid. Su questo crediamo che ciascuno abbia voce in capitolo, perché si tratta della cosa pubblica, del bene comune, del futuro di tutti. Noi vogliamo un futuro condiviso e condivisibile, da costruire insieme, non imposto dall’alto con il continuo ricatto del “comandano i dati”. I dati epidemiologici sono il nuovo “spread”: misurazioni puramente quantitative che pretendono di avere un valore assoluto, soppiantando il diritto, la democrazia, la dignità dei valori espressi dalla Costituzione, e conferendo nei fatti un potere illimitato a una classe di tecnocrati che si autoaffermano come gli unici soggetti legittimati a governare le crisi del presente, in quanto titolari di un presunto know how. Una classe dirigente che – a guardare i risultati e gli effetti delle politiche attuate – non esito a definirla la peggiore di sempre – a prescindere dai colori dei partiti, anche perché quei colori oggi sono tutti mescolati in un grigio uniforme.
Un punto per me, per noi, è certo: non comandano i “dati”, comandano i cittadini attraverso le forme della democrazia. Ogni alternativa a questo assunto corrisponde a un ordinamento dello Stato che non può dirsi democratico.
L’eredità del Covid si presenta oggi come un gravame terribile, una minaccia per lo Stato di Diritto, per la Democrazia, per la convivenza civile, per il tessuto sociale. Un paradigma politico per cui i diritti possono essere dati, tolti, sospesi, rilasciati in parte, consegnati ad personam, sulla base di misurazioni biometriche, di giudizi morali, di certificazioni che non attestano nulla; poi rimodulati sulla base di criteri che cambiano ogni due mesi a colpi di decreti, distribuiti alla cittadinanza in modo totalmente arbitrario, chiamando in causa presunte “evidenze scientifiche” in cui l’evidenza è del tutto assente, e questa lacuna è colmata da una arroganza vaticinante che nulla ha a che vedere con il metodo scientifico e con il ruolo che le discipline scientifiche dovrebbero avere all’interno delle società democratiche. Questa è l’eredità aberrante, una eredità straordinariamente preziosa per chi voglia fondare il governo della cosa pubblica sulla prevaricazione, sull’interesse e sull’arbitrio. Una eredità che mette in discussione e cancella tutto ciò che sappiamo, che abbiamo imparato, che amiamo, che abbiamo difeso, che vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti, che i nostri antenati hanno ottenuto e difeso perché noi ne beneficiassimo.
In questi due anni abbiamo attuato molte forme di protesta, di dissenso, di proposta: dal lancio di petizioni, alla scrittura di articoli e saggi, agli appelli alle Istituzioni, a decine di lettere alle figure di garanzia, a manifestazioni di piazza, alla ricerca continua di dialogo e confronto, al referendum, alla disobbedienza civile fatta alla luce del sole…
Nei mesi scorsi tutto questo si è dimostrato definitivamente inadeguato. Il potere politico è andato avanti come un carro armato, anche di fronte ai pronunciamenti di Tribunali che hanno indicato delle gravissime criticità su tutta una serie di aspetti delle gestione del covid. Un esempio tra i tanti: l’obbligo di mascherina a scuola, seduti al banco, è stato oggetto di censura in diversi pronunciamenti di Tribunali – sentenze, ordinanze del Tar, del Consiglio di Stato… Questo non ha portato a nessun ripensamento, a nessuna rimodulazione da parte dell’Esecutivo (e del Parlamento). A forza di prevaricazione, si è verificato un vero exhaustion del Diritto, con i magistrati, gli avvocati, i tribunali, che a un certo punto hanno smesso anche di occuparsi di certi temi. A che serviva? A essere umiliati nella dimostrazione che non esiste più il bilanciamento dei poteri? Anche questa è una terribile conseguenza della gestione del Covid con cui dobbiamo relazionarci, con l’obiettivo di ripristinare i meccanismi e gli equilibri fondamentali della Democrazia.
Di fronte a questa inadeguatezza delle Istituzioni, a questa brutalità del potere politico, e nell’evidente mancanza di una massa critica popolare, l’iniziativa individuale radicale è sembrata essere l’unica possibilità per non smettere di testimoniare, e ricominciare a fare rete con presupposti diversi, con un coinvolgimento personale maggiore, totale, senza riserve. Sottraendosi radicalmente a una serie di dinamiche false, artefatte, violente, manipolabili, deformate. Sottrarsi a tutto questo, così come ci si può privare del cibo, stando in ascolto e in consonanza con la sofferenza di chi è ingiustificatamente privato dell’essenziale, a partire dalla dignità umana, coltivando una profondissima serenità e mitezza. Questa è apparsa una scelta obbligata, l’unica possibile, per non morire moralmente, intellettualmente, di fronte a un tale delirio di onnipotenza politica.
Nella strada dello sciopero della fame non abbiamo inventato niente: abbiamo seguito con silenziosa stima e gratitudine le orme di chi già si era mosso in quella direzione: Davide Tutino, Saverio Mauro Tassi, Diego Zannoli, Luigi Magli… E prima ancora Alba Silvani, all’alba dell’epoca della discriminazione. Ma nella mia, nella nostra scelta di una azione nonviolenta con pieno coinvolgimento personale hanno influito anche gli esempi di alcuni “non digiunatori”: come Fabrizio Masucci, che nell’agosto 2021 si è dimesso dall’incarico di direttore della Cappella San Severo di Napoli (il museo del “Cristo velato”) per protesta contro il Greenpass nei luoghi di cultura; e Francesco Benozzo, e Marco Villoresi, docenti che si sono fatti sospendere per il rifiuto di esibire il green pass per accedere all’università, e di richiederlo agli studenti.
Di fronte a un carro armato che è pronto a passare sopra a qualunque cosa, il lancio di un sasso non produce effetti; mentre spogliarsi, simbolicamente, metaforicamente, o anche fisicamente, e mettersi Persona disarmata contro questa brutalità è l’unica cosa che potrebbe – forse – suscitare un sussulto nella coscienza di chi quel carro armato lo conduce; non è detta che accada, ma vale la pena tentare, a costo di assumersi un rischio. Non resta molto altro da fare. In ogni caso il gesto lascerà gli artefici della violenza soli e consapevoli di fronte alla propria violenza, non avendo questa la possibilità di trovare una “giustificazione” nel rispecchiamento con un’altra forma di violenza contrapposta. La Persona nella sua nudità, nella sua semplicità, nella sua povertà, nel suo essere disarmata, di fronte a un carro armato: sì, è questa è l’immagine che associo alla scelta della nonviolenza radicale, dopo due anni di tentativi “armati” (parlo delle armi della dialettica e dell’impegno civile, beninteso) di contrastare le forme più aberranti della gestione della pandemia.
“Con la non violenza riconosciamo il diritto di tutti all’esistenza, con la non menzogna il diritto di tutti alla verità.”
Questa frase di Aldo Capitini, riletta oggi, ci dice che stiamo vivendo un grande problema di pluralismo, di tolleranza, di accettazione, di condivisione. C’è una crisi della comunità, la quale viene chiamata insistentemente a un unanimismo cieco e sordo, calato dall’alto, propagato dai media, dai commentatori, dagli opinionisti, dai consulenti. La richiesta di uniformarsi a un unico discorso possibile, di ratificare decisioni, di beatificare scelte attraverso un complesso sistema di pratiche simboliche e rituali che sfiora l’allucinazione religiosa, l’adunanza archetipica: questo corrisponde a una vera epurazione delle coscienze, a una pulizia etnica delle diversità intellettuali, morali, spirituali, psicologiche. C’è soltanto una scelta possibile, non ci sono sfumature, non ci sono esitazioni possibili, non ci sono critiche consentite: questo è il seme dell’intolleranza, il seme dell’odio che poi fa crescere piante che portano a conseguenze terribili. Questo discorso d’odio, seminato perfino – incredibile a dirsi – da alcuni scienziati “scelti”, ha prodotto frutti avvelenati in termini di stigma sociale, discriminazione, delegittimazione, irrisione, derisione; un atteggiamento di violenza inaudita che non ha risparmiato nemmeno i ragazzini, nemmeno i bambini, gli adolescenti, che non hanno ricevuto alcuna tutela da parte dello Stato, delle figure di garanzia, delle istituzioni preposte proprio alla tutela dei minorenni.
Questa ferocia scatenata verso l’infanzia, suscitata dai rappresentanti delle istituzioni, fomentata dai media, condivisa o tollerata da gran parte della popolazione, è il punto più basso che un Paese civile potrebbe toccare. Non dimentichiamoci mai che cosa il green pass e il super green pass hanno significato – e ancora oggi, 21 aprile 2022, significano in molti contesti – per i minorenni: strappati per otto mesi alla vita sociale, estromessi tuttora dagli sport in cui riversano la loro passione da anni, esclusi dalle attività culturali, bloccati nell’accesso alle biblioteche, a quei mezzi pubblici che a volte sono necessari anche per andare a scuola, o a trovare un parente, un amico, un fidanzato dall’altra parte della città.
Quando ripenseremo a tutto questo tra qualche anno, stenteremo a credere che sia accaduto davvero. E se invece non faremo fatica a crederlo, e anzi ci sembrerà un fatto del tutto normale, allora vorrà dire che tutto è andato a rotoli.
Oggi, sul finire di questo aprile 2022, molte illusioni e menzogne stanno crollando. Un esempio fra tutti: la scuola. Ci è stato detto, ripetuto fino alla nausea, che i problemi della scuola non dipendevano da questo governo o dal precedente, ma dai tagli fatti negli ultimi vent’anni. Un po’ come per la sanità. Ci è stato detto che le scuole italiane non erano quelle francesi, o inglesi, o tedesche, o svizzere, o danesi. Ci è stato detto che qui era necessario imporre delle misure così restrittive, punitive, vessatorie, uniche al mondo, perché c’erano le classi pollaio, c’era il sovraffollamento, c’erano strutture anguste, vecchie, fatiscenti che non consentivano una adeguata aerazione, un naturale, spontaneo, distanziamento, un livello di igiene decente. Ci hanno raccontato tutto questo. E oggi cosa vediamo? Vediamo che ci ha raccontato questo taglia drammaticamente il finanziamento all’istruzione. Nonostante che stia già ora spendendo quella montagna di soldi del PNRR che il larga parte sono soldi che produrranno i nostri figli lavorando – quei figli che oggi vanno in quella scuola-lager, quella scuola con i volti cancellati, quella scuola depauperata e ingannata. E se poi qualche ragazzo osa protestare, rivendicando il diritto alla socialità accanto a quello alla sicurezza, ad attenderlo ci sono le manganellate di Stato. O nel caso esemplare dello studente liceale di Fano che protestava pacificamente contro l’obbligo di mascherina al banco, un trattamento sanitario obbligatorio.
Oggi dobbiamo chiederci dove sta andando il nostro Paese, quale strada è stata segnata da scrupolosi conducenti mentre la società parlava soltanto di un virus; dobbiamo chiedercelo, discuterne insieme, parlare tutti con tutti, con una disponibilità tanto forte da distruggere gli steccati ideologici che sono stati eretti in questi due anni; restando miti, determinati, lucidi, liberi. Liberi, cercando di propagare questa libertà, insieme alla dignità, all’inclusione, all’indipendenza, all’autodeterminazione – virtù che, prima ancora di parlarne e di rivendicarle, dobbiamo praticare.
C’è molto da fare. Non bisogna perdersi d’animo, la strada è lunga, il compito è difficile, ma noi dobbiamo svolgerlo: per noi stessi, per i nostri figli, per le nostre comunità. Per il futuro che in ogni caso, quali che siano le nostre scelte e le nostre azioni – comprese le non scelte e le non azioni –, contribuiremo a edificare.