Pubblichiamo le riflessioni di Daniela Levrone, che ha partecipato alla giornata di digiuno collettivo di 24 ore il 31 marzo 2022.
GRAZIE!


Non ho mai sentito la necessità di digiunare volontariamente. Inoltre, il concetto di lotta non violenta non rientrava esattamente nel mio vocabolario, né nelle mie modalità.

Da un giorno all’altro, mi trovo ad aderire al digiuno collettivo proposto da “Resistenza Radicale.”

“Perché lo fai?”, mi chiedo, come mi chiedono le altre persone. La mia risposta non è molto soddisfacente: “Non lo so. So soltanto che sento di doverlo fare.”

Ho ascoltato molte belle testimonianze sul perché di questo digiuno. Potrei ripetere le stesse frasi o cercare di imitare qualcuno, ma non sarebbe la mia verità. “Cosa vuol dire ‘non lo so’? Se non si hanno le idee chiare, non si va da nessuna parte”, mi dicono alcuni. Razionalmente, l’ho sempre pensato anch’io.

Ma è davvero sempre così?

Il digiuno amplifica la riflessione, per quanto mi riguarda, e di certo non sono un’esperta, avendolo praticato soltanto per un giorno. Le sensazioni che prevalgono non sono pacifiche. Prevalgono la mia rabbia e la mia indignazione.

Ho sempre manifestato il mio dissenso, in ogni modo possibile. Ma, come già avevo scritto a proposito del Duran Adam, il silenzio, lo “stare fermi” e, adesso, la nuova esperienza del digiuno rivelano aspetti nascosti di noi e aumentano la nostra consapevolezza.

Allora provo un grande dolore per quelle persone che ho intorno, che sono molto vicine a me, e che non hanno avuto la forza di dire “NO”.

Faccio una precisazione: non sto parlando di chi si è trovato costretto ad accettare il ricatto per motivi economici e ha pianto lacrime amare per essere stato obbligato a cedere, consapevole dell’ingiustizia. Neppure sto parlando di chi, liberamente, ha deciso di vaccinarsi, rispettando comunque le scelte altrui. Sto parlando di chi, pur potendo permettersi di rifiutare il ricatto, o per lo meno di temporeggiare, ha ragionato dicendosi: “Cosa mi succede se vengo escluso dalla società?”

La società, il lavoro, la famiglia, gli amici, l’immagine che ti sei costruito, le sicurezze: vale lo stesso una persona senza tutto ciò? Cosa resta di una persona quando ha perso tutto? Quando ha mandato all’aria il lavoro, quello in cui credeva, quando ha perso i suoi affetti più cari e la sua immagine è andata in frantumi? Quando non ha più un ruolo… Resta ancora qualcosa? Vale ancora qualcosa, questa persona, se la società non la riconosce? Che cosa dico a questi cari che ho perso, quando li guardo nei loro occhi sbarrati, vuoti, che non vedono più l’evidenza? Che cosa rispondo loro quando mi pongono questa domanda, la stessa che mi pongo anch’io: “Rimane ancora qualcosa di noi quando abbiamo perso tutto?”
Assolutamente, sì. E che cosa rimane?

Noi. La nostra essenza. Chi siamo. Crolla tutto e ci siamo noi. Noi stessi. Forse, è proprio questo che spaventa tanto. Ritrovarsi con noi stessi. Non poter più scappare, non avere più scuse, non avere più maschere. Essere soli. Sto male per queste persone che non sono riuscite a dire “NO”. Le guardo “godersi la vita”, in questo Paese dei Balocchi progettato ad arte da chi vuole togliere l’umanità all’essere umano, illudendolo di condurre un’esistenza piena di privilegi. Le guardo e me ne accorgo: le ho perse. Si sono perse. Sono sole, sono fragili.

E io? E noi? Noi resistiamo.

E allora? Perché ho digiunato? Non lo so. Ma mi viene spontaneo rispondere: “Per togliere. Per percepire ancora di più la mia determinazione, per aumentarla, per fare la mia differenza. Per sentire un’energia che mi unisce ad altri, pur mantenendo la mia individualità. Per trovare un altro modo, per provarle tutte, per esserci”.

Proviamole tutte. Restiamo noi stessi. Restiamo uniti.

Daniela Levrone